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Chomsky: lo scudo spaziale è un'arma di attacco

Il „neocolonialismo“ della globalizzazione

25.8.2009 - Confronti.net - Maurizio Simoncelli

«L’Africa, continente assai ricco di materie prime, soffre pesantemente la fame e il sottosviluppo, mentre le sue risorse rimangono in mano a ristrette élite nazionali in accordo con società multinazionali: la longa manus degli ex stati colonizzatori permane attraverso lo sfruttamento economico e mediante convenienti concessioni territoriali».

Storico e docente di geopolitica dei conflitti all’Università Roma Tre, Simoncelli è membro del Consiglio direttivo dell’Archivio disarmo.

Lo storico Maurizio Simoncelli è docente di Geopolitica dei conflitti al Master “Educazione alla pace: cooperazione internazionale, diritti umani e politiche dell’Unione europea” all’Università degli Studi Roma Tre. Membro del Consiglio direttivo dell’Istituto di ricerche internazionale Archivio disarmo, è autore di studi sull’industria militare e sulla politica della sicurezza e ha recentemente diretto il gruppo di ricerca dell’Archivio disarmo sulle “guerre del silenzio”.

Professor Simoncelli, in genere i mass media danno notizie di solo tre o quattro conflitti, mentre attualmente in tutto il mondo sono una cinquantina. Perché questa assenza di informazioni?

Ad essere esatti dobbiamo parlare di circa una trentina di conflitti e di una ventina di aree di crisi, la maggior parte dei quali non è praticamente mai menzionata dai maggiori network informativi. Da un lato manca una vera e propria copertura da parte delle maggiori agenzie giornalistiche, dall’altro la relativa lontananza geografica o politico-strategica dalle aree delle grandi potenze rende queste guerre “dimenticate”, marginali rispetto all’attenzione dell’opinione pubblica, ma non per quella delle potenze industriali o delle multinazionali.

Questi conflitti sembrano diversi dalle guerre combattute nel XX secolo. Di che tipo di conflitti si tratta?

Le differenze sono numerose. Innanzitutto Le guerre della prima metà del XX secolo si sono svolte soprattutto con epicentro europeo e tra stati nazionali, con eserciti ben organizzati, mentre a partire dalla seconda metà del XX secolo sino ad oggi le guerre sono divenute appannaggio quasi esclusivo del cosiddetto Terzo mondo, in particolare in Africa. Tali guerre, in secondo luogo, sono asimmetriche, cioè tra eserciti regolari e forze insurrezionali. Si parla di guerre etniche, tribali, civili, ma spesso sono conflitti che rispondono a sollecitazioni e a forti interessi esterni di tipo neocoloniale.

Circa le cause degli attuali conflitti, lei ha parlato di “neocolonialismo della globalizzazione”. A cosa si riferisce?

Come già accennavo, assistiamo ad un quadro internazionale che vede da un lato poche centinaia di milioni di persone che vivono nei paesi industrializzati in condizioni di benessere, che comprano a poco prezzo rilevanti materie prime e anche prodotti finiti dal resto del mondo, cui vendono – tra l’altro – ingenti quantitativi di armi per far fare guerre ufficialmente deprecate. Dall’altro emerge un quadro drammatico con miliardi di persone coinvolte. Lo squilibrio è evidente: l’Africa, continente assai ricco di tali materie prime, soffre pesantemente la fame e il sottosviluppo, mentre le sue risorse (oro, diamanti, petrolio, uranio, coltan, cassiterite e così via) rimangono in mano a ristrette élite nazionali in accordo con società multinazionali: la longa manus degli ex stati colonizzatori permane attraverso lo sfruttamento economico e mediante convenienti concessioni territoriali.

Chi combatte queste guerre? E chi sono le vittime e quale prezzo pagano?

Queste guerre, come detto, vedono quasi sempre opporsi truppe governative e forze ribelli in un quadro di guerriglia diffusa, cui partecipano anche gruppi paramilitari e forze mercenarie. Tutto questo precipita i paesi in un quadro d’instabilità sempre più diffusa, di crescente insicurezza, di cui pagano il prezzo maggiore proprio le popolazioni civili. Risulta statisticamente che la percentuale delle vittime civili in questi conflitti si aggira ormai intorno all’80-90% del totale dei caduti, dall’Iraq alla Colombia, dalla Cecenia al Congo. Le donne – già private dei loro uomini e figli – sono doppiamente vittime, poiché appare sempre più diffuso l’uso sistematico dello stupro, sia per umiliarle sia per diffondere il terrore della diffusione dell’Aids. Come assai diffuso risulta anche l’utilizzo di bambini-soldato nella maggior parte di questi conflitti dimenticati

In riferimento ad alcuni conflitti si sente parlare di scontro tra civiltà. Si può includere il fattore religioso tra le cause dei conflitti in corso?

Tutte le guerre sono sempre state giustificate con alte motivazioni ideali, come ci ricordano le crociate, l’espansione coloniale o la teoria nazista dello spazio vitale. In realtà, dietro ad ogni azione bellica c’è sempre stato un interesse geopolitico teso ad occupare e a sfruttare un territorio. Le motivazioni ideologiche e/o religiose, fondate sull’intolleranza, sono sempre state un utile strumento per poter coinvolgere e motivare le popolazioni in tali scontri. Nel Sudan, come in altri casi, la religione viene utilizzata proprio a questi fini. In altri casi, c’è chi sostiene l’inevitabilità dello scontro tra civiltà (cristiana e musulmana, ad esempio) o addirittura forme di razzismo nero contro neri, come nel caso della Costa d’Avorio. Anche la nuova linea statunitense della crociata militare contro gli imperi del male echeggia largamente queste visioni semplicistiche.

Non sembra molto ottimista sulle possibilità che questi conflitti possano cessare. A suo giudizio quali potrebbero essere alcune linee guida per una politica di pace?

Invece sono ottimista. Certamente gli interessi per la prosecuzione dei conflitti in atto sono notevoli. Basta pensare quanto convengono per determinate multinazionali, per certi governi o per le industrie delle armi. Molte società sviluppate ancora non si rendono conto che la propria ricchezza è basata su questo scambio ineguale e violento della globalizzazione. Eppure vedo un crescente impegno della società civile che preme e vuole uscire da questo assetto pericoloso e precario. Tanti sono i percorsi possibili, ma già avviati: dall’annullamento del debito estero dei paesi più poveri all’attuazione di una normativa internazionale sull’export di armi, dall’abolizione dei brevetti per alcuni medicinali salvavita per i popoli di questi territori all’avvio di una rete per il sostegno al commercio equo e solidale. Resta, però, il grosso problema della sensibilità e della coerenza della classe politica italiana ed europea. Ma questo dipende da chi noi scegliamo come nostro rappresentante.

(intervista a cura di Antonio Delrio)

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