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Chomsky: lo scudo spaziale è un'arma di attacco

Usa, il muro che non riesce a dividere

27.12.2008 - peace reporter
Al confine tra due Stati, una barriera inutile.

Dall´inviato di Peace Reporter Alessandro Ursic

Tra un negozio di cianfrusaglie di Washington Street e una farmacia di Avenida Guerrero ci sono solo un ponte sul fiume, un cancelletto e un gettone da 60 centesimi. Ci sarebbero anche due Paesi con abissali differenze economiche, culturali e linguistiche, divisi da un confine di 3.200 chilometri che comincia, in sostanza, qui.

In una città dal nome coloniale e un'altra chiamata come un eroe nazionale, le prime di una serie di sister cities, o pueblas hermanas, che andando verso ovest caratterizzano il confine texano tra Usa e Messico. Zone bilingui, o meglio: molto più ispaniche che anglofone. Con popolazioni in prima fila nella questione dell'immigrazione, ma che costituiscono anche un laboratorio per l'America del futuro. E che si oppongono alla costruzione del muro alla frontiera, un progetto già iniziato dall'amministrazione Bush e condiviso da molti americani.

Le voci dei leghisti d'America sono davvero echi lontani, se ti trovi a Brownsville.

Vedi insegne bilingui, e passanti ispanici nelle vie con nomi - Adams, Monroe, Jefferson - che richiamano la storia statunitense. Parli con gente che non capisce perché gli americani vedano posti così come i ground zero dell'immigrazione. Soprattutto, ti aspetteresti il solito confine impersonale, in periferia. Invece sta lì, nel centro storico. Quelle persone con le borse piene sono messicani che stanno tornando a casa, cioè in patria, alla fine di una giornata qualunque di lavoro e di shopping.

Attraversano a piedi il ponte sul Rio Grande, e in pochi minuti arrivano nel centro di Matamoros. Così, mentre pensi che sei negli Usa ma è come se vedessi già il Messico, capisci troppo tardi che la barriera che si para improvvisamente davanti alla tua auto non è fatta per pagare un pedaggio qualsiasi. "Deve tornare indietro? Non si preoccupi, succede ogni giorno. Metta la retro, la facciamo uscire da lì", invita gentile l'agente di frontiera, sotto un lampione dove ronzano nugoli di formiche volanti.

Basterebbero comunque già le libellule giganti e le palme per ricordarti che qui, in questo angolo di Stati Uniti vicino all'Oceano Atlantico, siamo quasi sul Tropico del Cancro. Città del Messico è distante quanto Dallas, Washington è a 2.400 chilometri. In campagna elettorale il tema dell'immigrazione è stato anch'esso lontano, assente dal confronto tra Barack Obama e John McCain.

Il nuovo presidente, comunque, si troverà in eredità la prevista costruzione di una barriera lungo oltre mille chilometri, un terzo della frontiera. Il Secure Fence Act del 2006 disponeva il completamento del piano entro questo dicembre. All'epoca, in un anno di rielezione per il Congresso, la riforma del sistema dell'immigrazione sembrava la priorità assoluta.

Si voleva rendere la frontiera più sicura, e al contempo fornire ai 12 milioni di clandestini un percorso verso la cittadinanza. Sullo sfondo c'erano le paure di un'America che si vedeva invasa da orde di immigrati messicani, infiltrata da terroristi stranieri e meta finale della droga sudamericana. Ma anche cosciente di non poter vivere senza i latinos che costruiscono le sue case, cucinano i suoi pasti, puliscono i suoi appartamenti, svolgono i lavori più umili nelle sue fabbriche.

Sabotata dai repubblicani più estremi, la riforma sull'immigrazione è poi saltata. Ma la costruzione della border fence è andata avanti. Anche se a rilento, per problemi economici e tecnici. E soprattutto, almeno nel Texas, per l'opposizione della popolazione al confine, con proprietari di terreni da espropriare e amministrazioni locali che hanno fatto causa allo Stato.

In inglese si dice "Good fences make good neighbours", ossia "una buona staccionata fa buono anche il vicino".

Ma che tu sia a Brownsville, McAllen, Eagle Pass o tutte le altre città con una puebla hermana di fronte, l'opposizione al muro è la norma. Le due comunità hanno rapporti quotidiani, con dinamiche che si ripetono. I messicani entrano negli Usa per lavorare, studiare, comprare abbigliamento, scarpe e chincaglierie varie a buon prezzo, nelle schiere di negozi tutti uguali dalla parte Usa.

Gli americani passano la frontiera per fare benzina, comprare medicine che costano quattro volte di meno, andare dal dentista per pagare anche meno; non a caso, le vie messicane alla frontiera sono una successione di farmacie e cliniche odontoiatriche. La maggioranza degli abitanti ha qualche parente nella città dall'altra parte. Un confine naturale c'è già: è il Rio Grande, che divide il Texas dal Messico. Ogni sister city ha almeno un ponte, per auto e pedoni, che la collega con l'altra sorella.

Le varie amministrazioni locali hanno progetti di sviluppo comune. Qui il Nafta, l'accordo di libero commercio tra Usa, Messico e Canada, negli ultimi quindici anni ha funzionato come uno straordinario volano per l'economia: le città texane al confine hanno alcuni tra i tassi di crescita più alti di tutti gli Stati Uniti, e anche dalla parte messicana il tenore di vita è migliore rispetto al resto del Paese. Dal 1994 a oggi, il Messico ha quintuplicato le sue esportazioni verso gli Usa, e l'industria alla frontiera è in pieno boom.

In un ambiente del genere, l'idea di una barriera di sei metri per tenere fuori "il marcio" che viene dal Messico non è solo inutile: è dannosa, e quasi offensiva. "E' un cattivo messaggio che diamo ai nostri vicini", dice Charlie Cobster, city manager di Brownsville, dal suo ufficio con vista sul ponte. "A cosa serve un muro? Per i clandestini? Il 99 percento degli illegali è gente che vuole lavorare, e comunque puoi scavalcare una fence o passarci sotto.

Per i terroristi? Quelli dell'11 settembre erano entrati dal Canada. Per la droga? Finché negli Usa ci sarà la domanda, esisterà anche l'offerta, e la roba arriva anche per aereo o per nave. Facciamo un muro in mare e nel cielo?", si chiede, proponendo invece di potenziare i controlli, con una migliore tecnologia e più agenti.

Ma un controllo completo è impossibile, anche dopo un decennio in cui Washington ha già investito tanto.

Dal 1995 a oggi, il bilancio della Border Patrol è aumentato di dieci volte. Il numero di agenti passerà dai 5mila dell'epoca ai 21mila del 2010. Tratti iper-tecnologici di virtual fence sono stati progettati, e posticipati per l'impennata dei costi. Certo, l'afflusso di immigrati clandestini - molti dei quali, comunque, rimangono semplicemente negli Usa oltre la scadenza del visto - è diminuito.

A fine anni Novanta, specie più a ovest, sembrava davvero un'invasione: nel 1999 la contea di Cochise (Arizona), grande poco più della provincia di Siena, effettuava 1.500 arresti di clandestini al giorno. Oggi, nonostante i maggiori controlli e la presenza del muro lungo centinaia di chilometri, in un anno negli Usa vengono comunque arrestati circa 800mila clandestini, molti dei quali ci riprovano. In un rapporto di due anni fa, la Border Patrol sosteneva di avere il "controllo operativo" su 449 miglia di confine, meno di un quarto del totale.

Per quanto riguarda la droga, basta dare un'occhiata a quel che (non) succede a Laredo. La città, quattro ore a nord-ovest di Brownsville, è il punto d'inizio della Interstate 35, l'autostrada che taglia gli Stati Uniti in due, dal Messico al Canada. Da qui passano il 40 percento delle esportazioni messicane negli Usa: circa 13mila camion al giorno, una costante coda in direzione nord.

E anche se i cani poliziotto annusano qua e là, si può controllare per bene un flusso di un camion ogni sette secondi? Non a caso, si calcola che l'85 percento della droga che entra negli Usa passi sotto il naso dei doganieri. Alcuni di loro, in combutta con i narcotrafficanti, chiudono entrambi gli occhi. Si fanno dire il numero di targa del camion, l'ora di arrivo, e lo lasciano passare. Ne hanno beccati diversi di agenti corrotti, negli ultimi anni.

Il confine, insomma, è una zona grigia. Un posto di passaggio illegale per cose e persone, dove la corruzione olia gli ingranaggi del sistema.

Chi la denuncia non è ben accetto. Bill Wisner, un bibliotecario delLaredo Community College (Lcu), alcuni anni fa scrisse una lettera a un giornale, per lamentarsi del malaffare locale. "Mi tagliarono le gomme dell'auto. Due volte", racconta. Con il vantaggio di essere un gringo ormai a suo agio tra due mondi, anche Keith Bowden è un attento osservatore del confine.

Un professore di inglese alla Lcu con la passione della canoa, l'anno scorso è sceso lungo il Rio Grande per tutti i duemila chilometri di confine, da El Paso fino alla foce di Boca Chica. Ne è nato il libro The Tecate Journals. Un pomeriggio passato con lui sulla canoa, dalla periferia al centro di Laredo, è istruttivo. Neanche il tempo di parcheggiare vicino alla riva, che arrivano due agenti della Border Patrol.

Non vedono spesso due bianchi sul Rio Grande, ma capiscono presto che non c'è niente di losco. Se ne vanno raccomandando "attenzione, perché oggi ci sono alcune activities sul fiume".

Che ci sarà da temere? "Niente, dicono sempre così", spiega Bowden. Le "attività", comunque, ci sono eccome. Tre ragazzi attraversano il Rio con l'aiuto dei salvagente, dopo aver portato dalla parte americana chissà quale carico, grazie alla protezione dell'impenetrabile barriera di canne sulla riva. Chissà se li hanno visti le telecamere della Border Patrol, montate su antenne alte decine di metri; in giro, comunque, non si vedono pattuglie.

Gli agenti rispuntano quando Bowden e il giornalista suo ospite ritornano sulla terraferma, sotto il ponte pedonale tra Laredo e la messicana Nuevo Laredo. Un minuto dopo che se ne sono andati, dal fiume escono di fretta tre donne, che corrono a nascondersi dietro i cespugli.

Se delle persone sono disposte a rischiare l'arresto entrando da clandestine in pieno giorno, sotto un ponte cittadino sorvegliato da agenti e telecamere, figurarsi se non ci provano nel disabitato deserto dell'Arizona, anche mettendo in pericolo la loro vita. Ma in fondo, una vita migliore è l'aspirazione di chiunque lasci il suo Paese.

Finché gli Usa avranno bisogno di manovalanza a basso costo, ci saranno sempre latinos pronti alla fuga oltre confine. "Il muro? Gli americani non faranno in tempo a costruirlo, che i messicani l'avranno già buttato giù", chiosa davanti a due burritos José, un messicano-americano negli Usa ormai da cinquant'anni.

Il recente calo degli arresti di clandestini, come la diminuzione delle rimesse verso i familiari, si spiegano anche con la crisi economica negli Usa. Ma le differenze tra i due mondi e i due popoli restano. Lungo la frontiera, le radio in spagnolo passano canzoni che parlano di amori e di sogni, mentre quelle in inglese cantano i solidi valori americani, Dio e la famiglia.

Sono diverse le due rive del Rio Grande, con quella messicana magari piena di immondizie ma almeno usata da delle persone, mentre la parte Usa è vuota, come se dal fiume non potesse venire nulla di buono. Sono diversi i valichi: gli agenti messicani a stento ti guardano, ma negli Usa un percorso obbligato ti porta agli sportelli della dogana.

Sono diverse le città: in Messico pub, ristoranti e prostitute si trovano già a pochi metri dal confine, le vie sono piene di gente anche alla sera; dalla parte americana, una volta chiusi i negozi di frontiera, in giro non c'è anima viva.

Contando anche il fatto che le le pueblas hermanas messicane sono anche dieci volte più popolose delle rispettive sister cities, l'immagine è quella di un popolo che preme, si espande, contro un altro che si ritrae. E ha paura.

Negli Usa, un Paese in fondo costruito da immigrati, parlare di questa paura è tabù. Chi chiede una frontiera più sicura incentra il suo discorso sull'illegalità dei clandestini, non sull'essere immigrati in quanto tali. I politici percepiti come razzisti perdono più voti di quanti ne guadagnino. Ma sullo sfondo c'è l'inquietudine di una nazione - come ha fatto notare Samuel Huntington nel libro La Nuova America - che per oltre duecento anni ha assorbito i nuovi arrivati in un modello linguistico-culturale anglosassone.

E che nei latinos vede invece una forza crescente che non si integra nel modello ma lo trasforma, portandolo al bilinguismo. Il futuro, d'altronde, è già nei numeri. Gli ispanici hanno superato da qualche anno gli afro-americani, diventando la prima minoranza etnica negli Usa (sono oltre il 14 percento). Due mesi fa, un rapporto ha indicato nel 2042 l'anno in cui i bianchi non saranno più la maggioranza nel Paese.

Facendo da cicerone a Eagle Pass dal suo enorme Suv, il sindaco Chad Foster pronuncia la parola proibita scuotendo la testa: "E' la paura del browning of America", di un Paese che da bianco si vede diventare "marrone". Con una voce da pubblicità della Marlboro e un cappello texano sempre con sé, Foster è il leader della Texas Border Coalition, il gruppo che riunisce le amministrazioni locali contrarie al muro.

Racconta di aver imparato lo spagnolo "per autodifesa" ma ormai è bilingue, e usa parole spagnole come intercalare. "No señor", dice riferendosi all'intenzione-imposizione di Washington di costruire il muro anche nella sua città, tagliando in due un parco e un campo da golf. Quando parla della puebla hermana Piedras Negras ("è qui che sono nati i nachos"), lo fa sempre al plurale.

"Dico 'noi' perché siamo una cosa sola", spiega. Ma al di là dei nachos con quejo - originali o no, buonissimi - di Piedras Negras, gli americani continuano a guardare il lessico con diffidenza.

Keith Bowden, che ha bagnato la sua canoa nei fiumi di mezza America, ricorda bene l'aria più rilassata al confine con il Canada. Incerto nel trovarsi davanti una postazione vuota, e abituato a procedure severe quando rema sul Rio Grande, al ritorno dell'agente gli chiese se volesse vedere il passaporto. "Per fare canoa? Ma sei pazzo?", gli rispose quello. Poco più avanti, Bowden si imbatté in un gruppo di giovani che fumavano marijuana sul fiume, attraversandolo liberamente. "Non c'è una frontiera lì, è come stare in mezzo al Kansas. Tutti i discorsi sulla sicurezza qui non riguardano il confine, ma con chi confiniamo", dice.

Certo, nelle città canadesi al confine non ci sono i cartelli della droga come a Ciudad Juarez o Nuevo Laredo, dove la lotta al narcotraffico lanciata dal presidente Felipe Calderòn ha scatenato una guerra - solo quest'anno a Juarez sono state uccise 800 persone, su un milione e mezzo di abitanti.

I trafficanti impongono ai tutori dell'ordine la scelta tra plata o plomo, una bustarella per fare il loro gioco o un proiettile di piombo se si oppongono. La situazione sembra fuori controllo: "E' un gran casino, amico", dice un giovane messicano-americano di El Paso, all'estremità occidentale del Texas, mentre attraversa il ponte per Juarez in cerca di una serata alcolica a basso prezzo.

A cento metri dalla frontiera, all'entrata di una balera c'è il cartello "No menores, no drogas, no armas". Le palme e le libellule di Brownsville sono lontane. Risalendo il confine, gli alberi sono diventati cespugli, gli arbusti sono diventati ciuffi di erba secca. E' un paesaggio da Non è un paese per vecchi, non a caso ambientato in queste zone.

Ancora più in là, prima della California, ci sono il New Mexico e l'Arizona. E la frontiera cambia. Dal fiume al deserto. Dai proprietari texani contro il muro, ai terreni federali e alle basi militari. Da ispanici che credono l'immigrazione sia inevitabile, a ronde di bianchi che aiutano la Border Patrol ad arrestare i clandestini. Ma combattono una battaglia già persa, in un Paese che cambia pelle. Lo capisci già quando gli agenti alla dogana di Laredo mostrano di sapere meglio lo spagnolo.

E ne hai la conferma quando ti devi fermare a un posto di blocco nel vuoto del Texas occidentale, dove puoi guidare per ore senza incrociare una macchina. "Passaporto, per favore... Italy, ok". Quali aghi cercano, in questo pagliaio? Sembra impossibile che la Border Patrol trovi davvero immigrati clandestini, in uno di questi controlli. Succede mai? "Ogni tanto", risponde con un sorriso l'agente. Gutierrez.

http://it.peacereporter.net/articolo/13350/Usa%2C+il+muro+che+non+riesce+a+dividere


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